venerdì 24 ottobre 2014

James and the Devil su RockGarage.it

Link http://www.rockgarage.it/?p=22242
by Amleto Gramegna
Parliamoci chiaro. I grandi nomi della musica pop (intesa come popolare) sono ben pochi: Lennon, McCartney, Elvis, Morrison, Charlie Parker. Insomma sono pochi gli artisti che hanno reso “nobile” la musica “giovane” (rispetto alla più blasonata musica cosiddetta “classica”). Uno dei nomi di spicco è sicuramente James Marshall Hendrix, in arte Jimi Hendrix. Il chitarrista mancino di Seattle è quello che ha decisamente osato più di quanto possibile lasciandoci solo 4 album in vita (di cui uno live) ed una marea di registrazioni postume. Per molti Hendrix è solo quello di Foxy Lady mentre in realtà è molto di più: è stato il tramite tra il rock e il jazz (favoleggiate le session segrete tra il chitarrista ed il genio Miles Davis), è stato quello che ha infilato lo spinotto della chitarra nel culo del blues dando nuova vita ad un genere ingessato e mostrando la strada ad uno dei suoi migliori allievi, tale Stevie Ray Vaughan. Tutto questo in pochi anni. Il 18 settembre del 1970 Jimi se ne torna al suo pianeta di origine lasciando su questa Terra solo la sua lezione a milioni di dita che suoneranno milioni di chitarre elettriche con preferenza di Fender Stratocaster. Ma stiamo divagando. I Rainbow Bridge, power trio da Barletta, rende omaggio al Dio della chitarra elettrica. Un omaggio sincero, appassionato. Non una rilettura statica delle partiture originali, ma un aggiornamento alle nuove correnti musicali. Ecco che nuove vesti stoner, desert rock, etniche ricoprono brani in precedenza blues o psichedelici. Stone Free diventa un brano tarantiniano, notturno, da colonna sonora di film come Pulp Fiction. Hey Joe(originariamente cover di un vecchio brano dei primi ’60) diventa quasi un valzerino con reminescenze folk. Red House, potente brano, memore di quella chitarra tirata per il collo nella registrazione originale, conserva il suo vigore e Giuseppe Piazzolla può sfogare tutto il suo amore per il genere blues, macinando licks su licks, pattern su pattern ora nuovi ora degni del Maestro. All Along The Watchtower era in originale un brano di Bob Dylan e la rilettura dei Rainbow Bridge la rende più intellettuale, lenta e malinconica grazie al sapiente lavoro al contrabbasso di Alessio Campanozzi. Il brano psichedelico per eccellenza di Jimi è Purple Haze, punto. Ma ora come lo rendiamo? Semplice! Lo decostruiamo. Il basso diventa il protagonista. La chitarra ci scivola sopra e noi scivoliamo al brano successivo.Voodoo Child nella sua versione originale è un tour-de-force di chitarra wha wha. L’intro di quel brano ha fatto storia e ha fatto abbandonare per sempre l’effetto da uno dei suoi principali utilizzatori, Eric Clapton. Anche qui i Rainbow Bridge decostruiscono il tutto rendendo più roots il pezzo. Da ascoltare e acquistare a occhi chiusi ma, come dissero i Guns N’Roses all’indomani della pubblicazione di The Spaghetti Incident, “…andate a cercare i brani originali!”. E questo ve lo consigliamo anche noi, ma tenendo a portata di mano Jimi And The Devil.

mercoledì 22 ottobre 2014

James and the Devil su Metallized.it

Link http://www.metallized.it/recensione.php?id=8224
Ci sono modi e modi di fare una cover, lo sappiamo tutti. Spesso e volentieri sono state proprio alcune cover a diventare famose nel Mondo, forse anche più degli originali: vogliamo citare ad esempio Cocaine, portata al successo mondiale da Eric Clapton o della stessa Crossroadsinterpretata dai Cream? O ancora di With a Little Help from my Friends immortalata nella memoria collettiva dall’esibizione di Joe Cocker nel film Woodstock? Perché non parlare di All Along the Watchtower o Hey Joe, rese indimenticabili dal tocco di Jimi Hendrix o, per arrivare a tempi più recenti, a Knockin’ On Heaven’s Door rivitalizzata dai Guns ‘n Roses? La verità è che prendere un brano e farlo diventare qualcosa di proprio, tanto da risultare forse più vero e sentito delle stesse composizioni originali, è da sempre una vera e propria Arte, un modo per infondere nuova vita a canzoni che evidentemente avevano ancora qualcosa da dare, magari in una veste completamente nuova. Si tratta evidentemente di un processo che ha un senso artistico e non meramente commerciale o linotipistico quando l’interpretazione assume una sua personalità riflettendo la cifra artistica di chi si occupa dell’operazione; quando non si tradisce lo spirito del brano, ma si offre una seconda chiave di lettura, aggiungendo o togliendo qualcosa e dando luce a una identità sopita o latente eppure capace di fornire credibilità e sapore. Questo il tentativo che i Rainbow Bridge si propongono di fare, aggiornando e reinventando alcuni famosissimi brani proprio del citato Jimi Hendrix, da sempre modello e ispirazione per migliaia di musicisti e, probabilmente, uno degli artisti più saccheggiati in assoluto da operazioni di questo tipo. Il rischio di trovarsi di fronte l’ennesima inutile operazione di restyling era palese e altrettanto evidente era il rischio di cadere in un tentativo filologico e fin troppo rispettoso dell’originale o, al contrario, del tutto incosciente e maldestro al punto da far gridare all’oltraggio.
Come anticipato, se la volontà è quella di innovare rispettando, di dare luce ad aspetti latenti eppure esistenti e di andare oltre lo scheletro iniziale per arrivare all’anima degli originali reinventandoli, allora il risultato rischia di essere, quanto meno, interessante. Inutile dire che l’ipotesi in questione è proprio questa.
L’interpretazione dei Rainbow Bridge parte intanto dalla natura di power-trio, proprio come nel caso della leggendaria Experience, ma gli strumenti utilizzati non sono quelli canonici previsti dal copione. A fianco dell’immancabile chitarra elettrica e della batteria troviamo infatti un contrabbasso, suonato dall’ottimo Alessio Campanozzi, che col suo suono tipicamente profondo e con il contributo di un archetto, riesce a dare una sonorità del tutto particolare alle ritmiche. La band sceglie inoltre di inserire i brani in un contesto contemporaneamente classico e del tutto peculiare, andando a ripescare influenze blues acustiche e classiche, folk, country, psichedeliche, surf, fino alle più prevedibili derivazioni hard rock, con un approccio che da un lato porta indietro la rivoluzionaria carica “elettrica” di Hendrix, uno dei massimi fautori e sperimentatori delle possibilità offerte dall’elettricità e dagli effetti, ancorando nuovamente la sua musica alla matrice blues e, dall’altro, ne rivela la modernità assoluta, in niente svilita dal tempo passato. Ulteriore valore aggiunto va riconosciuto al fatto che l’intero disco è registrato live in studio, il che crea una sensazione di piacevole calore e di spontaneità che ben si addicono alla musica di Hendrix. Allora spazio alla versione dilatata e blueseggiante di Stone Free, all’ottima rendering di Foxy Lady, accompagnata dal contrabbasso, dalla più canonica ma riuscitissima versione dell’immortale Hey Joe, fino alla splendida Red House, blues lento e pregno di calore. Ma non si segnalano momenti deboli o cali di tensione, con una Manic Depression, che perde leggermente quel senso di ciclicità ossessiva e incombente, per guadagnare in termini di qualità di arrangiamento e prestazione strumentale dei singoli. Ancora piuttosto fedele all’originale al di là della particolare sonorità degli strumenti, la versione diSpanish Castle Magic nella quale si segnala ancora il lavoro di contrappunto del contrabbasso e una inaspettata citazione della zeppeliniana Kashmir che si sposa perfettamente con la trama fin qui imbastita; decisamente riuscita e molto intensa la soffusa interpretazione di All Along the Watchtower, che rinuncia al fulminante assolo iniziale della versione hendrixiana per un arpeggio che ne esalta la maggiore introspezione e la buona prova alla voce di Giuseppe Piazzolla, il quale cita comunque nell’insistito assolo centrale il grande chitarrista americano. Chiusura ottima per il binomio Purple Haze/Voodoo Chile rese coerentemente con l’atmosfera fin qui creata dai Rainbow Bridge ai quali si può forse obbiettare una certa mancanza di dinamicità, avendo scelto quasi sempre la via della dilatazione rispetto a quella dell’impatto.
Tirando le somme su questo James and the Devil non si può fare a meno di considerare la buona prova strumentale del trio e le ottime idee messe al servizio dei brani, che godono sempre di arrangiamenti lineari ma non casuali e sempre molto centrati. I brani scelti sono forse i più classici (mancherebbe solo Little Wing, volendo) del repertorio di Jimi Hendrix, ma forse proprio per questo è più facile cogliere il lavoro operato dalla band. Molto buoni sia la produzione che il mixaggio, anche se forse un budget più elevato avrebbe contribuito a dare un taglio ancora più marcato alle particolari trame degli arrangiamenti creati dalla band, pur considerando che le registrazioni sono effettuate dal vivo in studio. I difetti di questa release sono quelli più evidenti: come sottolineato, Hendrix è uno degli artisti più saccheggiati in assoluto da artisti delle più svariate provenienze e, nonostante l’indubbia qualità delle cover qua presentate, forse l’ennesima versione di questi brani finisce per risultare poco attraente e, tutto sommato, un po’ pedante. Operazione senza dubbio colta, palesemente opera di musicisti che rinunciano alle implicazioni sessuali del ritmo hendrixiano, preferendogli una classe elegiaca e una sospensione temporale che ne esaltano la purezza musicale, ma tolgono un po’ della pericolosità e dell’avanguardia musicale tipiche degli originali. James and the Devildiventa quindi un ottimo esercizio di stile, credibile e riuscito, sicuramente sentito e tutto sommato originale, ma non per questo indispensabile o veramente contagioso.

Il disco è distribuito digitalmente e facilmente reperibile sulle piattaforme dedicate. L’ascolto è sicuramente consigliato, non fosse altro per l’originalità della proposta e per le indubbie qualità dei Rainbow Bridge, che attendiamo comunque a prove più significative e, paradossalmente, coraggiose.