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Ci sono modi e modi di fare una cover, lo sappiamo tutti. Spesso e volentieri sono state proprio alcune cover a diventare famose nel Mondo, forse anche più degli originali: vogliamo citare ad esempio Cocaine, portata al successo mondiale da Eric Clapton o della stessa Crossroadsinterpretata dai Cream? O ancora di With a Little Help from my Friends immortalata nella memoria collettiva dall’esibizione di Joe Cocker nel film Woodstock? Perché non parlare di All Along the Watchtower o Hey Joe, rese indimenticabili dal tocco di Jimi Hendrix o, per arrivare a tempi più recenti, a Knockin’ On Heaven’s Door rivitalizzata dai Guns ‘n Roses? La verità è che prendere un brano e farlo diventare qualcosa di proprio, tanto da risultare forse più vero e sentito delle stesse composizioni originali, è da sempre una vera e propria Arte, un modo per infondere nuova vita a canzoni che evidentemente avevano ancora qualcosa da dare, magari in una veste completamente nuova. Si tratta evidentemente di un processo che ha un senso artistico e non meramente commerciale o linotipistico quando l’interpretazione assume una sua personalità riflettendo la cifra artistica di chi si occupa dell’operazione; quando non si tradisce lo spirito del brano, ma si offre una seconda chiave di lettura, aggiungendo o togliendo qualcosa e dando luce a una identità sopita o latente eppure capace di fornire credibilità e sapore. Questo il tentativo che i Rainbow Bridge si propongono di fare, aggiornando e reinventando alcuni famosissimi brani proprio del citato Jimi Hendrix, da sempre modello e ispirazione per migliaia di musicisti e, probabilmente, uno degli artisti più saccheggiati in assoluto da operazioni di questo tipo. Il rischio di trovarsi di fronte l’ennesima inutile operazione di restyling era palese e altrettanto evidente era il rischio di cadere in un tentativo filologico e fin troppo rispettoso dell’originale o, al contrario, del tutto incosciente e maldestro al punto da far gridare all’oltraggio.
Ci sono modi e modi di fare una cover, lo sappiamo tutti. Spesso e volentieri sono state proprio alcune cover a diventare famose nel Mondo, forse anche più degli originali: vogliamo citare ad esempio Cocaine, portata al successo mondiale da Eric Clapton o della stessa Crossroadsinterpretata dai Cream? O ancora di With a Little Help from my Friends immortalata nella memoria collettiva dall’esibizione di Joe Cocker nel film Woodstock? Perché non parlare di All Along the Watchtower o Hey Joe, rese indimenticabili dal tocco di Jimi Hendrix o, per arrivare a tempi più recenti, a Knockin’ On Heaven’s Door rivitalizzata dai Guns ‘n Roses? La verità è che prendere un brano e farlo diventare qualcosa di proprio, tanto da risultare forse più vero e sentito delle stesse composizioni originali, è da sempre una vera e propria Arte, un modo per infondere nuova vita a canzoni che evidentemente avevano ancora qualcosa da dare, magari in una veste completamente nuova. Si tratta evidentemente di un processo che ha un senso artistico e non meramente commerciale o linotipistico quando l’interpretazione assume una sua personalità riflettendo la cifra artistica di chi si occupa dell’operazione; quando non si tradisce lo spirito del brano, ma si offre una seconda chiave di lettura, aggiungendo o togliendo qualcosa e dando luce a una identità sopita o latente eppure capace di fornire credibilità e sapore. Questo il tentativo che i Rainbow Bridge si propongono di fare, aggiornando e reinventando alcuni famosissimi brani proprio del citato Jimi Hendrix, da sempre modello e ispirazione per migliaia di musicisti e, probabilmente, uno degli artisti più saccheggiati in assoluto da operazioni di questo tipo. Il rischio di trovarsi di fronte l’ennesima inutile operazione di restyling era palese e altrettanto evidente era il rischio di cadere in un tentativo filologico e fin troppo rispettoso dell’originale o, al contrario, del tutto incosciente e maldestro al punto da far gridare all’oltraggio.
Come anticipato, se la volontà è quella di innovare rispettando, di dare luce
ad aspetti latenti eppure esistenti e di andare oltre lo scheletro iniziale per
arrivare all’anima degli originali reinventandoli, allora il risultato rischia
di essere, quanto meno, interessante. Inutile dire che l’ipotesi in questione è
proprio questa.
L’interpretazione dei Rainbow Bridge parte intanto dalla natura di
power-trio, proprio come nel caso della leggendaria Experience, ma gli
strumenti utilizzati non sono quelli canonici previsti dal copione. A fianco
dell’immancabile chitarra elettrica e della batteria troviamo infatti un
contrabbasso, suonato dall’ottimo Alessio Campanozzi, che col suo suono
tipicamente profondo e con il contributo di un archetto, riesce a dare una
sonorità del tutto particolare alle ritmiche. La band sceglie inoltre di
inserire i brani in un contesto contemporaneamente classico e del tutto
peculiare, andando a ripescare influenze blues acustiche e classiche, folk,
country, psichedeliche, surf, fino alle più prevedibili derivazioni hard rock,
con un approccio che da un lato porta indietro la rivoluzionaria carica
“elettrica” di Hendrix, uno dei massimi fautori e sperimentatori delle
possibilità offerte dall’elettricità e dagli effetti, ancorando nuovamente la
sua musica alla matrice blues e, dall’altro, ne rivela la modernità assoluta,
in niente svilita dal tempo passato. Ulteriore valore aggiunto va riconosciuto
al fatto che l’intero disco è registrato live in studio, il che crea una
sensazione di piacevole calore e di spontaneità che ben si addicono alla musica
di Hendrix. Allora spazio alla versione dilatata e blueseggiante di Stone
Free, all’ottima rendering di Foxy Lady, accompagnata dal
contrabbasso, dalla più canonica ma riuscitissima versione dell’immortale Hey
Joe, fino alla splendida Red House, blues lento e pregno di
calore. Ma non si segnalano momenti deboli o cali di tensione, con una Manic
Depression, che perde leggermente quel senso di ciclicità ossessiva e
incombente, per guadagnare in termini di qualità di arrangiamento e prestazione
strumentale dei singoli. Ancora piuttosto fedele all’originale al di là della
particolare sonorità degli strumenti, la versione diSpanish Castle Magic nella
quale si segnala ancora il lavoro di contrappunto del contrabbasso e una
inaspettata citazione della zeppeliniana Kashmir che si sposa
perfettamente con la trama fin qui imbastita; decisamente riuscita e molto
intensa la soffusa interpretazione di All Along the Watchtower, che
rinuncia al fulminante assolo iniziale della versione hendrixiana per un arpeggio
che ne esalta la maggiore introspezione e la buona prova alla voce
di Giuseppe Piazzolla, il quale cita comunque nell’insistito assolo
centrale il grande chitarrista americano. Chiusura ottima per il binomio Purple
Haze/Voodoo Chile rese coerentemente con l’atmosfera fin qui creata
dai Rainbow Bridge ai quali si può forse obbiettare una certa
mancanza di dinamicità, avendo scelto quasi sempre la via della dilatazione
rispetto a quella dell’impatto.
Tirando le somme su questo James and the Devil non si può fare
a meno di considerare la buona prova strumentale del trio e le ottime idee
messe al servizio dei brani, che godono sempre di arrangiamenti lineari ma non
casuali e sempre molto centrati. I brani scelti sono forse i più classici
(mancherebbe solo Little Wing, volendo) del repertorio di Jimi
Hendrix, ma forse proprio per questo è più facile cogliere il lavoro operato
dalla band. Molto buoni sia la produzione che il mixaggio, anche se forse un
budget più elevato avrebbe contribuito a dare un taglio ancora più marcato alle
particolari trame degli arrangiamenti creati dalla band, pur considerando che
le registrazioni sono effettuate dal vivo in studio. I difetti di questa
release sono quelli più evidenti: come sottolineato, Hendrix è uno
degli artisti più saccheggiati in assoluto da artisti delle più svariate
provenienze e, nonostante l’indubbia qualità delle cover qua presentate, forse
l’ennesima versione di questi brani finisce per risultare poco attraente e,
tutto sommato, un po’ pedante. Operazione senza dubbio colta, palesemente opera
di musicisti che rinunciano alle implicazioni sessuali del ritmo hendrixiano,
preferendogli una classe elegiaca e una sospensione temporale che ne esaltano
la purezza musicale, ma tolgono un po’ della pericolosità e dell’avanguardia
musicale tipiche degli originali. James and the Devildiventa quindi
un ottimo esercizio di stile, credibile e riuscito, sicuramente sentito e tutto
sommato originale, ma non per questo indispensabile o veramente contagioso.
Il disco è distribuito digitalmente e facilmente reperibile sulle piattaforme
dedicate. L’ascolto è sicuramente consigliato, non fosse altro per
l’originalità della proposta e per le indubbie qualità dei Rainbow Bridge,
che attendiamo comunque a prove più significative e, paradossalmente,
coraggiose.
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